Aiuto umanitario, compassione emotiva o azione politica?
Di fronte ai peggiori orrori che accadono nel mondo, come ci comportiamo e quali sono le reazioni scatenate dalle immagini che vediamo nelle nostre case? Quali le emozioni smosse in noi, “elegante minoranza privilegiata” del mondo abitato, di fronte ad eventi catastrofici di portata mondiale quali, ad esempio, il genocidio nei Balcani o, più recentemente, il terremoto caraibico di Haiti? Beh, il mondo occidentale sembra avere la possibilità di opzione tra il sedersi sul divano ed interessarsi del mondo a “tele-comando”, e l’iniziare coscientemente a riflettere e fare i conti con quello che vede.Oggi, le immagini stampate sui quotidiani e, soprattutto, quelle presentate alla tv sono spesso strazianti, ma, allo stesso tempo, restano estremamente distanti dalla nostra vita. Sembrerà banale e scontato ma, come cambiano le emozioni quando il mondo, improvvisamente, sembra ribaltarsi e da spettatori diventiamo attori proiettati nel grande schermo degli “altri”?
Cosa accade quando gli avvenimenti sono il crollo delle torri gemelle dell’11 settembre, piuttosto che soldati di casa nostra che cadono “in cosiddette
missioni di pace”? Forse, sarebbe necessario chiedersi perché non basta guardare la televisione, commentare increduli, commuoversi e tradurre quell’emozione in un contributo che, delegando associazioni umanitarie, sia volto a sentirci più partecipi delle sofferenze oppure meno in difetto nei
confronti delle popolazioni più svantaggiate.
Storicamente, solo i missionari impegnati a salvare anime, oppure i comunisti intenti a fomentare rivoluzioni agivano sulla base di un sistema di valori ispirati alla solidarietà universale. Valori che oggi sembrano divenuti di dominio collettivo, almeno per coloro che sperano in un mondo migliore. Venendo all’azione umanitaria, nonostante i continui sforzi di attuazione, il suo successo appare oggi un fenomeno di difficile realizzazione e, probabilmente, non ci si è ancora resi conto o non si è ancora voluto accettare che risolvere tutti i problemi del mondo è un’utopia e che non esiste motivazione razionale per credere di essere in grado di farlo. Purtroppo, questo è sovente giustificato dal fatto che, anche nelle migliori condizioni, l’intervento umanitario è sovente fallimentare perché non sostenibile nel tempo. H. Roy Williams, ex direttore delle operazioni estere di IRC ha brevemente riassunto la situazione dichiarando che “le organizzazioni umanitarie non sono in grado di affrontare le crisi che ci circondano”.
L’azione umanitaria non è la risposta più appropriata alle infinite sofferenze dei paesi poveri, alle guerre, alle carestie, ma resta comunque una responsabilità che società più fortunate devono abbracciare.
Nonostante i ripetuti fallimenti, le organizzazioni umanitarie non devono rinunciare a lottare, al contrario dovrebbero intensificare le proprie azioni da un punto di vista della sensibilizzazione collettiva e del coordinamento. Ma ecco intervenire un altro aspetto della cooperazione umanitaria.
C’è bisogno di prevalere, di arrivare per primi, di “vincere una guerra nella guerra” con le altre organizzazioni. C’è la necessità, come avvenne sulla luna, di collocare la propria bandierina colorata, di esporre il logo che, accanto all’immagine scioccante di turno, attraverso uno
scatto fotografico verrà tradotto in mailing, dunque denaro per la sopravvivenza di quella o quell’altra organizzazione.
In conclusione, occorre riflettere sulle reali motivazioni che, oggi, muovono le azioni umanitarie e di quanto esse siano o meno legate agli interessi politico-economici dei donatori mondiali. Forse, in così facendo, si smetterebbe di rincorrere il prestigio e la “vincita del premio” – i fondi dei donatori – e si tornerebbe ad agire secondo quei valori di solidarietà che hanno mosso e caratterizzato il mondo alla cooperazione umanitaria ai suoi arbori.
Il punto è ritrovare la genuinità ed il fine, primo ed ultimo, degli aiuti umanitari, ovvero l’Altro. Noi, privilegiati abitanti del mondo occidentale, potremmo e/o dovremmo preoccuparci molto di più dell’Altro?
Andrea Mussi